Testimonianze
Il lavoro per un membro di Istituto secolare, come per ogni laico, è un aspetto fondamentale della propria vocazione ed è vissuto eminentemente come servizio. E’ il modo per realizzarsi, per sentirsi utile, ma soprattutto per costruire la società e, magari, migliorarla. In fondo, il lavoro, unendo le persone nell’impegno quotidiano e sviluppando infinite relazioni, è una costante sorgente di fraternità…
Testimonianza sul mio lavoro
Tante volte ho avuto l’occasione di parlare del mio lavoro. Mentre stavo preparando questa testimonianza ho sentito una intervista ad un artigiano costretto a non lavorare per la pandemia da coronavirus e ha detto “mai come in questo momento ho capito quanto mi piace il mio lavoro, perché mi manca”. Anche per me è così.
Vorrei parlare del mio lavoro proprio da questa situazione di lockdown in cui tutti ci siamo trovati quest’anno. Tutto è bloccato, e forse ho l’occasione, pur nello stordimento del momento, di vedere, come in una foto, il tutto che riguarda quello che fin qui ho fatto e sto facendo.
Vedo l’ambulatorio polispecialistico dove lavoro: 30 anni fa confinato in un appartamento al primo piano e ora al piano terra, più visibile, senza barriere architettoniche, un’ampiezza di 300 metri quadrati, 10 ambulatori con attrezzature d’avanguardia dove lavorano 4 dipendenti e con cui collaborano 20 specialisti.
Vedo tutto e ne sono contenta.
Sono risultati di impegno, gioie, soddisfazioni, duro lavoro, sacrificio, fatiche, delusioni, a volte anche di lotta con me stessa e gli altri. Ma sono risultati davvero ottenuti grazie all’impegno di tante persone e di un lavoro insieme. Se non ci fosse stato l’essere insieme tutto questo non sarebbe stato possibile.
Quando da piccola o da giovane pensavo di fare il medico, pensavo a fare del bene, a guarire le persone, a farle star meglio. Ma poi pensavo anche ad un lavoro fatto “insieme”. Posso dire che l’essere insieme ha caratterizzato veramente il mio lavoro, le mie scelte e anche i risultati di tutto quello che si è realizzato.
Intendo il lavoro come il modo in cui ogni persona si realizza, si sente utile, ma anche il primo servizio, il contributo che ognuno può dare per costruire la società e il mondo che ci circonda e magari per migliorarlo. Ognuno nella vita è un piccolo pezzetto, ma fa parte di un puzzle che forma un tutt’uno. Quindi ognuno di noi è importante, per non dire necessario e fondamentale, per formare il tutto; se viene a mancare qualcosa, il tutto rimane incompleto, ma viene a mancare anche il motivo, almeno per me, di una chiamata. E’ davvero una caratteristica che dà motivo all’esistenza.
Questo, sempre secondo me, deve caratterizzare tutto, anche il modo di porci, di fare scelte economiche e sociali trasparenti e condivisibili. “Sentirsi parte” aiuta e forma la persona, ne smussa gli angoli e la plasma. La persona impara a donarsi e a saper chiedere perdono, a ricominciare e quindi ad amare.
Ho scelto di fare il medico, fin da piccola, proprio pensando a qualcosa che mi piaceva molto e che poteva portare un beneficio concreto ad una persona che si sarebbe sentita meglio anche attraverso il mio contributo. Quando mi sono iscritta a medicina ho avuto chiaro dentro di me di voler diventare ginecologa e così occuparmi della salute della donna, ma anche delle sue relazioni affettive, del mondo o del sistema che interagisce con lei e che la cambia. Mi è sempre interessato un approccio globale, se vogliamo dire olistico, dove l’attenzione alla persona nella sua globalità può aiutare a fare diagnosi e a fare star meglio più di quello che riuscirebbero a fare i farmaci da soli.
In tutto il mio impegno certo ci sono soddisfazioni e delusioni date dal raggiungimento degli scopi di miglioramento o salute, ma anche dalle relazioni che si instaurano con le mie pazienti.
Donne che mi chiedono la fecondazione in vitro e l’ovodonazione e per questo si sentono pronte a far di tutto non affrontando per nulla problemi fisici ed etici, o donne che non vogliono assolutamente il bambino che hanno concepito per motivi diversi. Donne che si fanno seguire con docilità e fiducia nei miei confronti e altre che, pur con il mio impegno, alla prima occasione e senza motivo cambiano il ginecologo. Continue richieste per cose futili o superficiali che alle volte mi spazientiscono e poi penso che magari per quella persona, in quel momento, era proprio importante un mio parere o conforto. Richieste a volte impensabili, in momenti impensabili. Ora ricordo Alessandra, che in gravidanza non poteva mangiare carne cruda: in un giorno di festa, all’ora di pranzo, mi telefona chiedendomi se poteva mangiare i tortellini in brodo. Alle volte è difficile pensare che quella cosa sia importante e utile in quel momento per quella persona e le richieste ti fanno sentire uno zerbino, dove ci si pulisce i piedi, o solo sfruttata per il momento e il bisogno futile. Francesca invece mi adora, per lei sono la sua “salvatrice”, ho seguito la gravidanza dei suoi 4 figli e in alcune di queste gravidanze aveva anche deciso di abortire cambiando poi idea, e ora, sua figlia maggiore ha chiesto di essere seguita da me nella sua gravidanza e questo le ha dato un’enorme felicità. E, confesso, ha reso felice anche me, anche se è una persona che non può pagare le visite.
Certamente ogni lavoro ha le sue difficoltà, la fatica e le soddisfazioni. Fare il medico e forse ancor di più la ginecologa, significa dare alla donna grande disponibilità di giorno e di notte, perché sempre può esserci un problema durante la gravidanza o una emorragia dall’utero, oppure solo una grossa preoccupazione che con una telefonata, un dialogo, una reperibilità può trovare rimedio. Lo sperimentare di sentirsi a servizio, ma alle volte anche “serva”, aiuta a capire la propria presenza nel mondo e comunque richiede la capacità di costruire qualcosa di positivo anche nel modo di rispondere, di porsi, di stare.
Durante l’università man mano che mi avvicinavo alla specializzazione pensavo che mi sarebbe piaciuto lavorare in un consultorio, perché la visione d’insieme di un problema presentato, una collaborazione, una condivisione con altri specialisti mi avrebbe aiutato a migliorare o a risolvere una situazione.
E’ stato qualcosa che piano piano ha preso forma nel tempo e all’ultimo anno di specializzazione in ginecologia, dopo alcuni incontri aperti agli abitanti del quartiere in cui vivo sui vari problemi socio culturali di quel tempo, coinvolgendo altre persone medici e psicologi, il fare qualcosa per le persone, per tutte le persone, si è tradotto nel dar vita ad un progetto che pensasse ad un modo diverso di vivere la nostra professione: essere insieme per…
E così è nata la cooperativa socio-sanitaria ed educativa in cui lavoro: volevamo essere insieme per il bene della persona e per ogni persona. Abbiamo pensato ad un servizio che si occupasse della cura della persona non solo dal punto di vista fisico e mentale, ma anche educativo e formativo. Un luogo e un impegno per ogni persona ricca o povera senza alcun tipo di discriminazione e aperta a tutti. Una attività che avesse la sostenibilità economica e potesse andare avanti nel tempo senza dipendenza da progetti o convenzioni pubbliche.
I primi passi del poliambulatorio, l’attività di formazione nelle scuole e a professionisti, le consulenze psicologiche alle coppie, agli adolescenti… Ripenso a tutto ciò e ancora mi commuovo…
Il lavoro pensato insieme ha superato l’individualismo presente molto spesso soprattutto tra i professionisti, anche tra di noi, e ha acquistato una dimensione nuova nel confronto, nella sollecitudine reciproca, nelle scelte condivise, e anche nella crescita professionale. In tutti questi anni abbiamo coniato tanti slogan che sono stati anche titoli di nostri progetti: “insieme si può”, “si può fare di più”, “insieme per far crescere la famiglia”, “insieme per la globalità della persona”, “insieme per la salute e la cura dell’individuo, della famiglia e della comunità”
Abbiamo iniziato a fare impresa insieme, a confrontarci sulle spese, sui nostri compensi economici, sui contratti dei lavoratori dipendenti, su come e quando investire nella corresponsabilità di tutti a vari livelli.
Nell’anno 2000 ho accettato di occuparmi di una casa per ferie e ho pensato alla costituzione di una nuova cooperativa per la gestione. La medesima cooperativa poi ha pensato di coinvolgere la cooperativa di cui già faccio parte, per un aiuto alla conduzione e amministrazione. Due cooperative che lavorano insieme.
Qualcuno mi chiede: ma come fai a fare lavori così diversi? Non sarebbe meglio fare bene una cosa?
Io la penso diversamente.
Nella diversificazione degli impegni, ho potuto sperimentare anche il lavoro di pulire una camera e fare i letti, di pulire i bagni, di fare la barista e la cameriera. Sento ciò non come una dispersione ma come un arricchimento perché ho sperimentato la passione per ogni tipo di lavoro e la soddisfazione che fosse fatto e venuto bene. Questo mi ha permesso di trovare migliorie e accorgimenti per nuove proposte e metodi. Ma soprattutto mi ha permesso di capire maggiormente le donne che vengono nel mio ambulatorio e che fanno spesso lavori di questo tipo.
Essere cooperativa ha cambiato e cambia continuamente il nostro modo di lavoro, di impegno, di responsabilità. Il lavoro di ognuno di noi è vissuto nella mutualità… la crescita umana, professionale, economica non è solo personale e individuale, ma della cooperativa nel suo insieme. L’utile economico aumenta i servizi offerti, il confort, le attrezzature e gli strumenti diagnostici. Il bene va condiviso.
Gli ideali sono alti, ambiziosi, ma ci si rende conto che la quotidianità, i problemi e anche i cambiamenti che avvengono con l’età, possono incidere e rallentare il percorso. Anche i cambiamenti socio-culturali o ambientali, come in questo periodo di coronavirus, possono creare uno sconvolgimento alle nostre scelte che purtroppo debbono essere ponderate, ma sempre di più richiedono velocità e a volte immediatezza di decisione.
Oggi vedo che la costruzione di quel qualcosa che ho fatto in questi anni, di quel puzzle, è stato opera di quel pezzettino che ho cercato di mettere con quello che sono e anche con quello che agli altri mi hanno permesso di essere.
Cristina
Francesca ci è di grande aiuto
Quale gioia quando la Responsabile della Casa di Riposo mi disse: “Francesca ci è di grande aiuto” .
Francesca non è una volontaria della Casa di Riposo, è un’ospite serena e gioiosa che vive alla presenza del suo Signore come nell’aria che respira e che, guardando i suoi compagni di strada verso la meta, dice; “Ecco oggi la mia adorazione eucaristica”.
Lei sa godere di un fiore che spunta in giardino, del battito d’ali di un uccello che vola nel cielo, dell’attenzione di una sorella, che ha occhi per vedere il prossimo.
È una donna dal cuore materno che pensa sempre ai bambini che hanno fame e a loro cerca di provvedere; è una spigolatrice che ha trovato lì il suo campo dove, in umiltà e silenzio, spigolare i più poveri di grazia e di amore.
Francesca non sa rispondere al questionario CIIS sull’invecchiamento attivo, ma sa vivere attivamente i suoi 92 anni.
Grazie Francesca, siamo orgogliose di te!
Spigolando, spigolando
Spigolando lungo le strade della mia città ho incontrato M.
Era bella e molto dignitosa nel suo portamento. Mi ha salutata festosamente ma in fondo al suo sguardo ho visto molta tristezza. Ci siamo soffermate a guardarci negli occhi e, quasi rispondendo ad un mio silenzioso interrogativo, ha subito riversato nel mio cuore l’angoscia del suo cuore, sicura di trovarvi accoglienza e comprensione.
“Aspetto un bambino”, mi ha detto, “ma ho già fatto la certificazione per l’aborto” e quasi a giustificazione ha aggiunto “non posso permettermi un altro bambino, ne ho già quattro e uno con problemi sanitari”.
Avevo davanti a me una mamma che con sofferenza aveva deciso di togliere la vita a suo figlio. Che cosa c’è di più doloroso? Lei sapeva che io ero impegnata nel Centro di Aiuto alla Vita ed ero di conseguenza contro l’aborto. La sua confidenza portava perciò una richiesta di aiuto che molto probabilmente non sarebbe venuta a fare nel centro d’ascolto C.A.V. ma lì sulla strada le era venuta spontanea così come si fa con una persona amica.
Soffermate su quella strada benedetta in un abbraccio fatto di lacrime e parole di speranza, ci siamo alleate per la vita.
E Michele, ora che ha fatto il suo ingresso nel nostro mondo, ci guarda con grandi occhi pieni di meraviglia mentre mamma e papà lo guardano con infinito amore e a noi dicono: “Grazie per il coraggio”
E così spigolando per le strade del mondo possiamo essere chiamate a dare una mano a Dio a soccorrere i suoi poveri.
Gli inizi della mia storia
La mia chiamata alla consacrazione è coincisa con la mia conversione.
La conoscenza che avevo di Dio era tradizionale (diciamo “per sentito dire”) e in parte legata alla mia mamma che era una donna splendida. E io, menefreghista, ero fidanzata.
La mia casa era situata sulle montagne umbre (per arrivarci non c’erano strade, se non piccole mulattiere ridotte a fossi dalle piogge), a metà del percorso che san Francesco fece da Bagnara ad Assisi prima di morire: il monte Subasio da una parte e il monte Pennino dall’altra, le cui cime si perdevano nel cielo e mi davano un senso di infinito, di pace.
Spingevo lo sguardo nelle vallate lontane seguendo il fumo delle locomotive che si dileguavano piano piano lungo il loro percorso. Questi monti erano tutta la mia cultura.
Qui ho vissuto fino a diciotto anni con la mia famiglia: genitori e fratelli. La povertà era la nostra sorella. Bisognava decidersi ad andare in città per guadagnare qualche soldo per preparare il corredo che ogni giovane doveva avere per un eventuale matrimonio.
Con altre ragazze partii per F., con molta titubanza. Avevo quindici anni.
Una famiglia stupenda, molto cristiana, mi accolse e da essa appresi un modo e uno spirito diverso di vivere e di pensare che mi affascinò.
Partecipai ad una novena dell’Immacolata nella cattedrale di F. e questo segnò l’inizio di un cammino diverso per me. Cominciai a pensare alla mia anima, a Dio in primo luogo. Lessi il Vangelo da cima a fondo, meravigliata di come si ripetessero le stesse cose tre, quattro volte nello stesso testo. Mi sembrava che queste parole cadessero in una terra fertile per germinare, nella quale c’era spazio per costruire una vita diversa,
Credo che la grazia di Dio mi invase e mi rovesciò dalla testa ai piedi. Il mio modo di pensare, di agire non era più quello di prima. Ero felice. Scomparvero le paure e la tristezza che avevo accumulato, mi sentivo leggera, pensavo sempre al Signore e piano piano maturai l’idea della consacrazione, ma non sapevo come.
Una volta capitò Pia. Sapevo che stava fondando un Istituto dove già erano andate delle giovani. Incontrai Teresa e Gabriella che stavano andando a Città di Castello e si fermarono nella famiglia presso la quale io lavoravo. Due ragazze molto spirituali, belle e intelligenti.
Una volta parlai con don Fiordelli. Da quel colloquio ebbi tanta pace e sicurezza. Mi decisi per la consacrazione, ma dovevo fare i conti con la mia famiglia che mi fece subito tornare a casa. Prima, però, ebbi la possibilità di partecipare ad un ritiro spirituale a Città di Castello con le prime cinque/sei spigolatrici. Rimasi affascinata dalla loro delicatezza, dal loro modo di fare fraterno, dolce, amico, altruista, spirituale.
Tornata a casa non ebbi più contatti con le spigolatrici. Leggevo il Vangelo e gli scritti di santa Teresina del Bambin Gesù.
Per un triste evento di famiglia, mi recai all’ospedale di F. e così approfittai per andare da Pia. Dopo una grande accoglienza decisi di rimanere lì. Telefonai ai miei che mi vennero subito a prendere, ma non tornai a casa.
Dopo circa otto giorni andai alla Casa della Giovane a Città di Castello dove c’erano altre due o tre spigolatrici e mi trovai subito bene.
Avevamo ventidue anni, eravamo entusiaste e ci volevamo molto bene. Pregavamo molto ed eravamo piene di zelo.
Ricordo tutto con tanta gioia: le partite a pallavolo con le adolescenti e tante altre cose.
Ringrazio Dio di queste esperienze fatte agli inizi del nostro Istituto. Angela